OK!Mugello

Dalle Olimpiadi (equitazione) all'Africa in bici. Lo sport secondo Giovanni Menchi

Abbonati subito
  • 969
Dalle Olimpiadi (equitazione) all'Africa in bici. Lo sport secondo Giovanni Menchi Dalle Olimpiadi (equitazione) all'Africa in bici. Lo sport secondo Giovanni Menchi © n.c.
Font +:
Stampa Commenta

«Giovanni Menchi è un cavaliere italiano», dice Wikipedia. In verità, è molto di più. Uno sportivo (mugellano) a 360°. Voglia, determinazione, costanza. Classe '75, membro del Corpo Forestale dello stato, inizia con l’equitazione. E  arriva, tra competizioni nazionali e internazionali - con un bilancio di due ori, tre argenti e un bronzo solo nei campionati italiani -, alle Olimpiadi di Atene 2004. Dal 1991 al 2009 veste azzurro. Poi si reinventa: corsa, trekking, ciclismo, moto. Fino a vere e proprie «avventure» in giro per il mondo; spesso con amici, a volte per scopi umanitari. Sempre (e comunque) per amore dello sport. Ne parla con Ok!Mugello. Giovanni, che cos'è per te lo sport? «Pratico sport fin da piccolo. Da sempre, insomma. E’ stato ed è una costante della mia vita». L’equitazione è stata la prima passione? «In realtà mio padre era appassionato di Sci. E infatti feci anche qualche gara. Dopo mi orientai sull'equitazione: un po’ perché la montagna avrebbe richiesto spostamenti e trasferimenti, un po’ perché mio nonno aveva dei cavalli da trotto e i miei cugini avevano (uno, Marco Santini) dei cavalli da corsa, e l’altro (Paolo) faceva il concorso ippico». E quindi sei stato spinto verso questo mondo. «Sì, iniziando alla scuderia La Torre. A Borgo San Lorenzo». Quando ti sei accorto di poter competere ad alti livelli? «Non ho avuto subito coscienza di poter arrivare in alto, però ho lavorato molto. A 15 anni vinsi gli europei (categoria Junior). E da lì, ispirandomi a grandi campioni, ho cercato di migliorarmi». Qual è la differenza dell’equitazione rispetto ad altre discipline? «Non è uno sport di fatica come possono essere la corsa, o il ciclismo. Certo, ci vuole anche prestanza fisica. Però, più che altro, c’è bisogno di sensibilità». Sensibilità? «Nel gestire il cavallo, nel gestire la gara. E’ un insieme di sensazioni. Il cavaliere deve “sentire” il cavallo: che in quel momento diventa un compagno. Si crea una sorta di binomio tra animale e atleta. Un binomio imprescindibile». Una brillante carriera ti ha portato alle Olimpiadi di Atene. Un grande risultato. «Be', sarei dovuto andare anche all’edizione Sidney, nel 2000. Però ci fu un problema per l’espatrio del cavallo che montavo, trovarono delle irregolarità burocratiche prima che partissi. E dovetti rinunciare. Da quel momento Atene divenne un obiettivo da raggiungere, quasi come un riscatto». E una volta lì? «Un traguardo meraviglioso. Mi colpì molto il contesto. E la cerimonia d’apertura: una serata multirazziale e multisportiva con atleti da tutto il mondo. Indimenticabile». Hai indossato la maglia azzurra per quasi 20 anni: com'è? «Non c’è da dire molto. Quando si sale sul podio con quella maglia la soddisfazione è difficilmente descrivibile». La gara a cui sei più affezionato? «Badminton, Inghilterra. Uno degli eventi più importanti per l’equitazione. Ero presente anche nel 1999, ma nel 2000 fu veramente particolare. Montavo un nuovo cavallo, ma avevo avuto un infortunio al ginocchio e inoltre, per violenti temporali, erano state annullate tutte le gare del mese precedente a cui era iscritto. Quel giorno, di fatto, mi ritrovai con un cavallo che, pur allenato, non avevo mai provato in gara. Ma andò bene, e fu una grande prestazione». Poi hai cambiato vita. E sei andato avanti: trekking, corsa, ciclismo, motociclismo. «Non potrei rinunciare allo sport. Queste, del resto, insieme alla montagna, sono tutte discipline che già praticavano quando andavo a cavallo. E col tempo sono migliorato. Ho iniziato anche sport estremi da amatore, a cimentarmi in qualche avventura di più ampio respiro». Per esempio? «In moto ho percorso l’Armenia, la Tunisia, l’Algeria, il Marocco. E il trekking mi ha portato fino al campo base dell’Everest. Nel 2002, partendo da Ravenna insieme ad altri, ho condotto un’ambulanza in Burkina Faso, attraversando il Sahara. Non avevano un'ambulanza laggiù. Ed è stata una missione a scopo umanitario – via terra - per portargliela. Un altro viaggio a scopo umanitario l’ho fatto nel 2015, poi: dall'Emilia Romagna al Mali in bicicletta per sostenere la Onlus Gente d’Africa (qui). Faceva caldissimo. Gli abitanti dei villaggi dove mi fermavo a mangiare non volevano farmi pagare mai il conto. Mi vedevano in bicicletta su quelle lunghe distanze – che per loro è impensabile – e ne rimanevano colpiti». Ok!Mugello, nel 2016, ha seguito la tua avventura «fino alla fine del mondo»: 9400 Km percorsi tra Cile e Argentina (qui). «Ero con Alessandro Samorani e Dario Magi in sella a tre Honda XR 150. Una bella esperienza. Luoghi straordinari». Insomma, continuerai su questa strada? «La prossima settimana ho una gara in mountain bike, nelle Dolomiti. Tra le più impegnative d’Europa: sarà dura. E il prossimo anno ne ho una in moto in Francia. Anche quella non sarà una passeggiata. Ma continuerò, sì: non ce la faccio a fermarmi».

 

Lascia un commento
stai rispondendo a