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I risultati delle ultime elezioni regionali hanno visto trionfare il centrosinistra in due regioni del sud, Campania e Puglia, che avranno come presidenti di regione rispettivamente Roberto Fico e Antonio Decaro, mentre il Veneto, dove ha vinto il centrodestra, sarà guidato da Alberto Stefani, della Lega. Le elezioni si sono svolte domenica 23 e lunedì 24 novembre. Nel quasi concluso 2025 altre regioni hanno votato: Marche, Calabria - in entrambe ha trionfato il centrodestra -, Toscana - dove ha vinto il centrosinistra - e Valle d’Aosta, conquistata dal partito di centro e di ispirazione autonomista Union Valdotaine, che non fa parte di alcuna coalizione.
Insomma, è finita in parità: tre regioni sono andate al centrosinistra e tre al centrodestra. Se facciamo luce sui partiti, con il 36% la Lega è il partito più votato in Veneto, doppiando Fratelli d’Italia, fermo al 18,6%, segno che il leghista predecessore di Stefani, Luca Zaia - che ha governato la regione per quindici anni, ottenendo ben tre mandati consecutivi - ha lasciato soddisfatti i suoi cittadini, e segno anche che FDI - il partito della premier in carica Giorgia Meloni - alle prossime elezioni politiche potrebbe vedersi sottrarre dal Carroccio un considerevole numero di voti. Ciò che è sicuro è che il partito del Vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini, dato per spacciato fino a poco tempo fa, è vivo e vegeto.
In generale non si è assistito a nulla di eclatante. Gli equilibri sono rimasti più o meno gli stessi. La Toscana, roccaforte di sinistra, ha scelto nuovamente Giani; la Campania e la Puglia hanno sostituito i democratici De Luca e Emiliano con i democratici Fico e Decaro; il Veneto, fortino di destra, ha riconfermato un leghista; le Marche hanno premiato il presidente vincente nel 2020, Francesco Acquaroli; la Calabria, eleggendo Roberto Occhiuto, continua a preferire una guida a destra. La novità - che a dire il vero non è una così tanto novità - è che la sinistra, quando è unita, vince, o comunque fa meglio. In Campania e in Puglia la differenza tra il candidato di destra e quello di sinistra è stata notevole: Fico ha preso il 60,8% di voti, mentre il suo sfidante, Edmondo Cirielli, il 35,4%; Antonio Decaro ha invece preso il 64,1%, contro il 34,9% di Luigi Lobuono. In Veneto la coalizione di centrosinistra è cresciuta di 13 punti percentuali rispetto al 2020. Certo, le sconfitte in Calabria e nelle Marche pesano, infatti non si può parlare di uscita dalla crisi e salute ottimale, ma comunque di un inizio di ripresa.
La mancata unità della sinistra ha consegnato tre anni fa il paese alla destra, che pur essendo in disaccordo su alcuni temi, ha raggiunto i compromessi necessari per stilare un programma condiviso. Quando si recano alle urne, i cittadini sono più propensi a premiare partiti in coalizioni dall’identità forte. Le elezioni politiche del 2022 sono un chiaro esempio. All’epoca il Movimento 5 stelle fu il precursore della caduta del governo Draghi, che oltre ad essere in disaccordo su molte questioni, tra le quali l’invio di armi all’Ucraina e le discussioni per apportare modifiche al Reddito di Cittadinanza, nel giugno di quell’anno non dette fiducia al decreto Aiuti, che avrebbe consentito al sindaco di Roma, Renato Gualtieri, di costruire un inceneritore (avversato dai grillini). Draghi decise quindi di non voler continuare senza l’appoggio del M5S. Alle elezioni che seguirono, il partito fondato da Casaleggio e Grillo, e oggi guidato da Antonio Conte, corse in solitaria.
Il M5S rifiutò di coalizzarsi con le forze di sinistra, e la coalizione di destra, che a differenza di quella dei suoi avversari presentò un programma condiviso, stravinse. Con quasi il 30% dei voti, Fratelli d’Italia - che fino a un decennio fa era pressoché insignificante - divenne primo partito d’Italia. Il M5S e il PD hanno deciso di correre insieme per le regionali di quest’anno, anche se non è certo che accadrà lo stesso per le politiche. Fondamentale perché sia così è riuscire a unire i propri sforzi nel presentare ai cittadini progetti condivisi, rinunciando a qualcosa. Non si può pensare di poter realizzare tutto ciò che si desidera. La destra lo ha capito perfettamente, e per questo motivo oggi è al governo.
Correre in solitaria può essere una scelta sensata se il partito in questione, oltre a poggiare su una solida base ideologica e essere formato da persone capaci, comprende la realtà attuale e conosce a fondo le richieste dei cittadini. Importante è quindi restare ancorati al popolo e trovare unità all’interno del partito. PD e M5S hanno spesso dimostrato di essere loro stessi gli artefici dell’allontanamento degli elettori, e due esempi salienti ne faranno capire il motivo.
Il primo: negli ultimi anni i rappresentanti del Partito Democratico hanno commesso il grave errore di condannare la destra per - a detta loro - pericolosi rigurgiti fascisti, e di lanciarsi a capofitto su temi sociali ai quali alla stragrande maggioranza della comunità nazionale non interessa niente. Il manipolo di deficienti che ancora oggi fa il saluto romano a Predappio o a Roma per la commemorazione di Sergio Ramelli - il povero militante del Movimento Sociale Italiano di diciotto anni che nel 1975 venne assassinato dai militanti di Avanguardia Operaia - dovrebbero essere notizie da trafiletto in ultima pagina, invece spesso vengono strumentalizzate dalla sinistra per dipingere la destra come brutta e cattiva. E nel frattempo le città sono sempre meno sicure - la Milano del sindaco democratico Sala, ad esempio, è diventata un far west - e i lavoratori si sentono più rappresentati dal centrodestra.
Ed eccoci al secondo: prima delle elezioni politiche del 2022, il M5S visse un periodo di profonda crisi, culminata in una scissione. Luigi di Maio, esponente di spicco del partito e Ministro per gli affari esteri e la cooperazione internazionale, a seguito delle forti divergenze con Conte - ancora oggi presidente del M5S - decise di abbandonare il Movimento. Di Maio fondò, insieme a Bruno Tabacci, il partito Impegno civico, dove confluirono decine di parlamentari eletti con il M5S, tra i quali gli ex ministri del governo Conte II Vincenzo Spadafora e Lucia Azzolina. Impegno civico, che si coalizzò con la sinistra, prese lo 0,6% dei voti alla Camera e lo 0,56% al Senato, non riuscendo a superare il 3% necessario per l’elezione di parlamentari nel collegio plurinominale. Il M5S prese il 15,43% dei voti alla Camera e il 15,56% al Senato, la metà rispetto al 2018, dove si attestò al 32% in entrambe le Camere. Non possiamo essere certi che tale batosta sia da attribuire alla scissione, ma di certo non ha aiutato.
In politica poi può accadere di tutto, anche l’impensabile, pur di governare. Basti pensare al comico governo Conte 1, detto giallo-verde, che rimase in carica poco più di anno: dal 1° giugno 2018 al 5 settembre 2019, e che vide governare insieme il M5S di Di Maio e la Lega di Salvini. Le visioni opposte dei due partiti si fusero, dando vita a un accordo - detto Contratto per il governo del cambiamento - che potrebbe fare da sfondo a un film di Totò. L’accordo prevedeva la flat tax - la tassazione a aliquota fissa - al 15% per le partite iva fino a 65.000 di ricavi, e al contempo un reddito minimo garantito di 780 euro per i disoccupati in cerca di lavoro, che fu chiamato Reddito di Cittadinanza. Insomma, elargire grosse quantità di denaro tagliando le entrate: una trovata che farebbe ridere anche un bambino.
Il successivo governo Conte II, detto giallo-rosso - che vide governare il M5S e il PD - crollò per iniziativa di Matteo Renzi, fondatore del partito di maggioranza Italia Viva, che a seguito di frizioni con l’esecutivo decise di ritirare alcuni suoi esponenti, dando avvio a una crisi di governo. Il Conte II venne sostituito dal governo tecnico di Mario Draghi, e con le elezioni del 2022 Giorgia Meloni divenne premier, carica che ricopre tutt’oggi.
Ma tornando a noi, le elezioni regionali riflettono le intenzioni di voto di quelle politiche?
La risposta è: più no che sì, poiché a livello locale è facile votare diversamente da quando lo si fa a livello nazionale. Ciò è dovuto al fatto che, per quanto riguarda le città e le regioni, i cittadini tendono a premiare maggiormente la persona - che, per forza di cose, ne conoscono meglio i progetti -, e meno l’ideologia di fondo e il partito. Pensare che vincere - o viceversa perdere - nelle grandi città equivalga a sapere come andranno le elezioni politiche, significa commettere un grosso sbaglio. Nel 2021 il centrodestra perse le amministrative in moltissime città italiane, tra le quali Milano, Napoli e Bologna, eppure l’anno dopo Giorgia Meloni divenne Presidente del Consiglio.
Il Partito Democratico e il Movimento Cinque Stelle possono godersi il discreto risultato delle regionali e festeggiare, ma per vincere alle prossime elezioni politiche del 2027 serve coesione a livello nazionale. Arginare la destra si può, a patto di occuparsi di questioni concrete e avere una squadra di individui preparati, al contrario del M5S che si è macchiato della colpa di aver fatto entrare in Parlamento gente totalmente incapace.
Articolo a cura di Paolo Insolia


