OK!Mugello

Antropocene: Il Parco Eolico di Giogo Villore non è un problema solo mugellano.

antropocene

Abbonati subito
  • 2
  • 715
Antropocene: Il Parco Eolico di Giogo Villore non è un problema solo mugellano. Antropocene: Il Parco Eolico di Giogo Villore non è un problema solo mugellano.
Font +:
Stampa Commenta

Il dibattito e il conflitto sull’eolico industriale in zone forestali e sui crinali in cui siamo coinvolti nel Mugello può stimolarci a capire di più sul tema della transizione ecologica necessaria per riassorbire la rottura dell’equilibrio della biosfera causato dalla nostra specie in soli 300 anni. Una cosa è già abbastanza chiara in partenza ed è che bisogna agire da subito e su più aspetti. Il cambiamento climatico è un aspetto del problema globale di alterazione della biosfera. L’altro fondamentale aspetto, interagente con il primo,  è la perdita di biodiversità (inizio di una estinzione di massa).

Per fermare il cambiamento climatico  occorre azzerare le emissioni di gas climalteranti e fermare la distruzione di foreste e altre zone verdi e umide che assorbono il CO2.
Per combattere la perdita di biodiversità  occorre da un lato agire sul cambiamento climatico e dall’altro modificare il modo di produrre e prima di tutto nell’agricoltura nel quadro di un intervento generale per limitare il  consumo fisico di materia ed energia e di suolo.

E’ giusto che ogni persona  prenda posizione su un progetto come quello del Giogo senza aspettare di avere idee  perfette su questa crisi planetaria, dato che la decisione sul Giogo, ma in realtà su tutto l’Appennino,  si prende ora e potrebbe avere conseguenze irreversibili.  Ma lo stesso “caso Mugello” presenta spunti di riflessione importanti a livello globale e, secondo la mia esperienza, la difesa dei crinali può essere  un’occasione conoscitiva vera e propria. 

Cercando appunto di capirne di più  ho trovato un aiuto prezioso nel  recentissimo libro sistematico di Federico M. Butera Affrontare la complessità (ed. Ambiente), che non solo riporta dati aggiornati sulla crisi ecologica, ma sintetizza e divulga con una esposizione chiara i risultati teorici della  fisica applicata all’economia e al tema ambientale, fino allo schema di Kate Raworth (2017). Questo schema “a ciambella” definisce “lo spazio giusto e sicuro” dentro il quale l’umanità deve tenersi combinando i due confini, da un lato quello esterno ecologico determinato dai limiti planetari e dall’altro quello interno  sociale definito dai 17 obiettivi di sviluppo sostenibile elencati dalle Nazioni Unite, per esempio povertà zero e riduzione delle disuguaglianze. 

E questa “ciambella dello  spazio sicuro” sul versante ambientale è definita con sempre più soddisfacente precisione dalla ricerca in rapporto a:

  1. Il grado di riduzione dello strato di ozono
  2. Il cambiamento climatico
  3. L’acidificazione degli oceani
  4. L’inquinamento chimico
  5. La modificazione del ciclo dell’azoto e del fosforo
  6. Il cambiamento di uso del suolo
  7. La perdita di biodiversità
  8. Il carico di aerosol cioè di polveri e fluidi dispersi dall’attività umana nell’atmosfera

Questi otto fattori di crisi ecologica dell’Antropocene interagiscono tra loro nei modi più vari  creando numerosi circoli viziosi, per esempio il cambiamento climatico riduce la produttività agricola, questa riduzione spinge a estendere le coltivazioni su nuove terre  vergini e così si riduce assorbimento di C02 e si incrementa di nuovo il riscaldamento. L’afflusso di nutrienti azotati e al fosforo da concimi industriali dilavati nelle acque è la causa principale di acidificazione degli oceani e questa  a sua volta riduce la capacità di assorbimento di CO2 delle acque e fa aumentare di nuovo il riscaldamento. 

Sono tutti questi con le loro interazioni fattori della crisi globale della biosfera che ci minaccia e non solo quello pur fondamentale del riscaldamento; e per quanto riguarda le emissioni dovute alla azione umana, misurate in 49 miliardi annui  di tonnellate CO2-equivalenti,  la produzione di elettricità e calore non è del resto l’unica responsabile di esse, come si rischia di credere a causa della narrazione dominante, bensì incide per  il 26,4% (dati 2010, vedi Butera pag. 40-44). Il settore agricolo-forestale-urbano incide per il 24% sul tonnellaggio di CO2-equivalente prodotto, più anche del settore industriale non energetico (21%). 

E da dove vengono tutte le emissioni del settore agricolo-forestale e urbano?
Dal metano generato dai ruminanti e dalle risaie, dagli ossidi di azoto emessi dai fertilizzanti azotati, dal mancato assorbimento di CO2 da parte della vegetazione e dal suo rilascio dal terreno a causa della deforestazione e in generale del cambiamento di uso del suolo, cioè in particolare: trasformazione di aree naturali in terreni agricoli, impatto delle miniere e delle loro scorie e inquinamenti da metalli delle acque e delle terre, sviluppo dei centri abitati e delle loro infrastrutture quali le strade. 

Ma i terreni agricoli non sono anche quelli in qualche modo terreni naturali e verdi?
Purtroppo l’agricoltura intensiva causa degrado del suolo con la grande quantità di fertilizzanti artificiali, pesticidi e prodotti chimici sparsi,  mentre l’allevamento intensivo crea effluenti ricchi di nutrienti e di residui solidi, spesso con elevate concentrazioni di antibiotici e questo vale anche per gli allevamenti di pesci i quali per di più sono alimentati con farine ricavate macinando altri pesci di minor pregio, per cui lo sviluppo dell’acquacultura non fa nemmeno diminuire la predazione industriale nei mari. Per la loro particolare rovinosità ambientale meritano capitoli a parte gli allevamenti di gamberetti creati al posto degli ambienti costieri delle mangrovie e le coltivazioni del cotone, della canna da zucchero, della palma da olio.

Le infrastrutture e lo sviluppo urbano poi occupano solo l’1% delle terre abitabili, ma il loro ruolo è molto più rilevante di quanto non appaia da questa cifra perché impattano sia sugli ecosistemi, limitando la mobilità delle specie (e ovviamente questo è anche uno degli effetti di una serie di aerogeneratori allineati sui crinali e strade annesse) sia sul regime della acque a causa dell’impermeabilizzazione del suolo. 

L’impatto urbano e delle infrastrutture sugli ecosistemi è dovuto alla perdita di habitat che causano. Frammenti di habitat piccoli e circondati da attività umane hanno minori probabilità di mantenere le funzioni ecologiche e di garantire la sopravvivenza agli animali e alle piante che li popolano. A livello globale questa minaccia è enorme, si prevede per esempio che le lunghezze delle strade asfaltate aumenteranno di 25 milioni di chilometri entro il 2050, per il 90 % nei paesi in via di sviluppo ed emergenti. Ma ogni singolo metro di nuova cementificazione dovunque sia realizzata contribuisce a questo avanzamento irreversibilee del degrado dei suoli. 

L’uso del suolo viene pure cambiato dai grandi invasi per la produzione idroelettrica e dagli impianti eolici e solari con tutte le infrastrutture che richiedono, se questi impianti vengono collocati su terreno vergine e non in ambienti già urbanizzati (tetti) industrializzati o degradati come del resto richiederebbero almeno in linea di principio le nostre Linee-Guida nazionali. 

Inoltre la diffusione di impianti eolici e solari va considerata anche rispetto all’interazione con il sistema minerario, perché purtroppo accanto ai loro aspetti positivi le fonti di energia rinnovabile ne hanno anche di negativi, e prima di tutto quello di richiedere a parità di energia prodotta una quantità di materiali e di superfici occupate molto maggiore di qualsiasi altra forma di produzione energetica. Nel frattempo i giacimenti di minerali ad alto tenore sono  esauriti e quelli a tenore basso vengono via via coltivati costringendo a lavorare ed estrarre percentuali crescenti di rocce, un caso estremo è quello del rame dove per ogni tonnellata di minerale ricavata occorre estrarre e frantumare ormai duecento tonnellate di rocce che la contengono con il corrispondente consumo di energia e di suolo.

Alla luce di queste informazioni globali si scopre allora che tutte le prese di posizione (che valga  la pena analizzare) a favore dell’eolico sul Giogo e altri impianti enormi in luoghi pregiati sono concentrabili in sostanza  in un solo ragionamento: non ha senso preoccuparsi per la deforestazione di qualche ettaro, dato che l’impianto farebbe risparmiare CO2 in quantità pari a quella assorbita da un milione di alberi. Non è un esempio immaginario, lo ricavo  da un’osservazione depositata nella procedura Giogo da un’associazione che sostiene appunto l’eolico senza se e senza ma. Un concetto molto simile è stato espresso dal progettista capo (e comunicatore) di Agsm nell’inchiesta pubblica più o meno con queste parole: voi vi preoccupate dell’impatto delle pale  sull’ecosistema, ma se non  vengono fatti impianti di energia rinnovabile come questo  l’ecosistema subirà danni ben maggiori. Questo genere di “ambientalismo degli industriali” è stata inserito fin dall’inizio nella relazione di progetto di Agsm quasi come se fosse un dato tecnico del progetto stesso. 

Le parole del proponente e degli “ecologisti industriali” suoi sostenitori  sottovalutano di certo gli impatti e sopravvalutano probabilmente i vantaggi del progetto Giogo, ma soffermarsi criticamente su singole affermazioni, benché necessario, e lo abbiamo fatto nell’inchiesta pubblica, non basta a mettere in crisi una narrazione “green” che scende dall’alto e viene ogni giorno riproposta  dall’associazione dei costruttori di eolico e da altri simili gruppi di interesse, che viene inseminata su Internet, nei notiziari, nella pubblicità delle banche, e  viene fatta propria dalla Direzione Energia della Regione Toscana e espressa per esempio nello slogan “Toscana carbon free” e che ora trova il suo capofila nazionale nel ministro Cingolani. 

Di primo acchito questo programma  infatti si presenta come nitido, lineare e facilmente comprensibile. Soprattutto lineare: c’è una causa della crisi ambientale ed è il riscaldamento globale; c’è una causa del riscaldamento globale, e sono i gas serra; c’è una causa dei gas serra e sono i combustibili fossili. Dunque se si aboliscono i combustibili fossili  si risolve la crisi ambientale, e si può rilanciare l’economia senza danni per l’ambiente. E noi toscani vogliamo essere i primi della classe di queste innovazioni!

Anche la “rivoluzione verde “ di sessanta anni fa era considerata “la” soluzione ovvia al problema della fame, ora però l’agricoltura industriale diffusa in tutto il mondo è diventata  parte e non piccola della crisi ambientale oltre che delle più tremende diseguaglianze e di crisi della qualità del cibo e di molti altri guai.

Si deve stare in guardia nei confronti delle soluzioni semplici e lineari a una crisi ecologica  che dipende da  più fattori, per l’esattezza otto fattori principali come abbiamo visto, con tutte le  loro  interconnessioni e interazioni: l’intervento deve avvenire contemporaneamente su tutti i fattori della crisi e non solo su uno, l’intervento fatto con i paraocchi su un solo fattore può aggravare gli altri fattori di crisi, come accade appunto quando si distrugge naturalità insostituibile per produrre energia dal vento. E’ bene sapere perciò che in  ogni caso anche con le energie rinnovabili e  le coibentazioni e altre soluzioni tecnologiche non sarà possibile  mantenere lo stesso stile di vita, si dovrà comunque uscire dal consumismo e adottare sul serio lo schema dell’economia circolare, unico modo per raggiungere lo stato di equilibrio per quanto riguarda il flusso di beni materiali e di energia che tiene in moto il ciclo produzione-consumo. L’economia circolare è essa stessa se si vuole una tecnologia o meglio un complesso sistemico e razionale di modi di costruire gli oggetti, di servizi, di  forme di cooperazione e di organizzazione sociale, per  una società fondata sulla drastica riduzione delle percorrenze delle merci, sulla manutenzione più che sulla produzione e sul riuso più che sul semplice riciclo delle materie prime. 

L’agricoltura industriale poi deve essere sostituita dall’agroecologia ed è questa la vera vocazione del nostro territorio mugellano nella transizione ecologica globale, non di essere piattaforma di produzione energetica. 

Magari la Toscana riuscisse a essere la prima della classe sì, ma in questo tipo di cambiamento complesso e veramente benefico. Purtroppo l’attuale modello economico toscano così squilibrato verso il turismo mondiale, gli aeroporti e le altre infrastrutture impattanti, la rendita urbana, l’esportazione di marmo, di prodotti di lusso (di cui i conciatori di S.Croce sono un “hub” tanto caro agli uffici regionali..), la monocultura della vite, i megacentri commerciali che costellano la campagna urbanizzata, il disordine della piana ecc. non sembra andare esattamente in quella direzione. 

Ma la cosa di cui preoccuparsi di più è che nei piani  dell’Unione Europea e dei vari governi almeno per ora la transizione ecologica è identificata quasi solo con la sostituzione energetica cioè con  l’intervento su un solo fattore della crisi.  Inoltre questa sostituzione energetica è consegnata alle strategie dei gruppi privati interessati alla rivoluzione green per incrementare il proprio giro d’affari e viene considerata soprattutto come un passaggio utile a innescare una nuova era ancora più energivora del ciclo  produzione-consumo-produzione. Si vuole insomma  mettere il vino nuovo delle energie rinnovabili nella botte vecchia dell’economia liberista e della crescita continua del PIL. L’associazione economica dei paesi ricchi OCSE-OECD teorizza la cosiddetta “crescita verde” che potrebbe essere realizzata semplicemente sostituendo le fonti rinnovabili alle fonti fossili, migliorando l’efficienza dei processi, riciclando tutto il riciclabile e avvalendosi di tutte le tecnologie rivoluzionarie posssibili.  Fa parte di questa visione l’enfasi sul solo cambiamento climatico come solo problema da risolvere per tornare in armonia con l’ambiente. E’ questa però una strada sbagliata fondata sulla riproposizione della crescita illimitata in contraddizione con i principi fondamentali della fisica. 

In conclusione la lettura del libro di Butera mi ha convinto ulteriormente che con questa battaglia per la difesa dei crinali da un pesante inserimento industriale non ci stiamo limitando a difendere un singolo bene territoriale e un paesaggio insostituibile, ma stiamo anche dando un contributo per impedire che le soluzioni al problema della crisi ecologica siano fondate sul rilancio dello stesso schema inquinante ed energivoro che ha causato il problema.

Lascia un commento
stai rispondendo a

Commenti 2
  • Alessandro G.

    Ottima e approfondita analisi, ricordiamoci che negli anni 50 del secolo scorso il fabbisogno elettrico dell'Italia era soddisfatto al 100% da energia rinnovabile idroelettrica, poi da allora sono cresciuti a dismisura i consumi. Quando si parla di ridurre i consumi energetici , la propaganda della crescita illimitata tira fuori lo spauracchio del medioevo e della vita nelle caverne, senza sapere che nel 2000 consumavamo la metà dell'energia di oggi, ovvero per DIMEZZARE i consumi basterebbe tornare a vivere come nel 2000, io dico che volendo si potrebbe fare. Infine la follia del voler elettrificare tutto, semplicemente è un non senso, un imbuto evolutivo che non ci porta da nessuna parte e ci mette a rischio di catastrofici collassi infrastrutturali, meglio la riduzione degli sprechi.

    rispondi a Alessandro G.
    gio 20 maggio 2021 09:27
  • Franco Utili

    E speriamo di essere ancora in tempo

    rispondi a Franco Utili
    gio 20 maggio 2021 08:58