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Mostro di Firenze: Per qualche dollaro in più

La monetizzazione logora chi non ce l’ha (e logora anche chi ce l’ha, ma poco).

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Mostro di Firenze Mostro di Firenze © OKM
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S’è fatta l’Italia dei tuttologi, bellezza! Un tempo c’era il cronista con la giacca lisa, la biro e la puzza di verità sotto le unghie. Oggi, invece, ci son gli “esperti del Mostro”, armati di webcam, microfono da gaming e una connessione che va e viene come la memoria di certi testimoni.

Dopo la serie Netflix, oh, s’è scatenato il delirio: mezza penisola si sente detective! Su YouTube e Facebook spuntano “mostrologi” come funghi dopo la pioggia. Tutti con la loro teoria, tutti convinti d’aver scoperto “la verità che gli inquirenti non vogliono far sapere” — o meglio, le presunte piste rivoluzionarie (spesso riciclate), le stesse storie vecchie messe a nuovo con un titolo acchiappa-click.

C’è chi copia da Wikipedia, chi cita “fonti riservate” che stanno su Google, e chi — tra un mutuo e una pausa pranzo — si improvvisa criminologo perché “tanto che ci vuole?”. E vai di video, di dirette, di toni gravi e sguardi intensi, mentre dietro scorrono le tende dell’Ikea.

Nel frattempo, sul canale 122 del digitale terrestre, continuano le trasmissioni investigative dove il mistero lo fa l’audio che gracchia. E in edicola, accanto al cruciverba e al gossip di Novella 2000, trovi la rivista “GIALLO”, diretta dalla presentissima Albina Ferri, sacerdotessa bionda del delitto, che ormai appare ovunque: in TV, su YouTube, al bar e, pare, anche nei sogni dei lettori più fedeli.

E uno si chiede: ma perché ‘sta gente perde ore, giorni e giga di traffico dati a parlar sempre delle stesse cose?
Semplice: per qualche dollaro in più!
La monetizzazione di YouTube è diventata la nuova pista investigativa. Mica cercano il Mostro — cercano il bonifico!

Fra i protagonisti di questa giostra trovi un po’ di tutto: finti avvocati (uno denunciato davvero), pensionati che si sentono FBI, bancari in crisi mistica che parlano di DNA e profili psicologici, e nullafacenti con la passione per la torcia elettrica. Tutti in diretta, tutti esperti, tutti convinti d’essere nel cast della prossima serie Netflix.

Il risultato? Ore di chiacchiere, teorie balzane e “ospiti d’eccezione” che non sanno neanche dov’è Scandicci. 
La verità, poverina, è lì in un angolo a piangere, mentre l’algoritmo brinda con lo spumante delle visualizzazioni.

E via così, tra un “like” e un “seguimi”, in quest’Italia dove anche il delitto si fa con l’abbonamento premium.
Alla fine — diciamocelo — a chi fanno male?
Al massimo a chi ancora la verità la cerca davvero, senza Wi-Fi, senza sponsor, e senza nemmeno i soldi del caffè.

Paolo Cochi

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