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Mugello. Le avventure di un veterinario, prima e dopo la guerra....

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Una nuova appassionanante storia di vita vissuta raccolta dalla nostra collaboratrice Matilde Colarossi. La testimonianza che la vita a volte può essere più bella di un romanzo. Buona lettura:

Nato a Casaglia Pie D'Alpe nel '22, il Signor Sergio ha vissuto in quel piccolo paese di montagna fino all'età di 9 anni, quando la famiglia si trasferì a Bilancino. Allora era un paese di boscaioli, carbonai, piccoli proprietari terrieri, mezzadri e falegnami, come il suo babbo. Vivevano una vita semplice, povera, tra i boschi dell'Appennino Toscano. Poche erano le famiglie che non andavano a Firenze a cercare lavoro. E la natura dominava sopra ogni cosa, sopra le loro vite.

La vita dei bambini si divideva tra la scuola, la famiglia e i boschi. “I boscaioli - ricorda - arrivavano fino a Monghidoro a piedi a lavorare e tornavano una volta la settimana per fare rifornimento”. A quei tempi, nonostante il duro lavoro che facevano e il fatto che  attraversavano la montagna a piedi, c'era chi davvero  mangiava solo  pane e cipolla.  “Vivevano lunghi periodi nel bosco - continua - dormendo in capanne di legno e terra. Erano delle vere opera d'arte, mica tutti le sapevano fare. Erano fatte a cono, coperte fino al vertice di pelliccia di terra e dentro ci facevano un letto di frasche”.

Devo chiedere cosa sia la pelliccia di terra, cosa facevano esattamente i boscaioli. Sono cose nuove, strane per me. Una vita che non conosco, termini che non ho mai sentito.

“La pelliccia di terra è la parte superficiale della terra. Una zolla di erba. Per tirare su la capanna prima preparavano i pali di legno, li fissavano a terra e li legavano in cima. Poi venivano intrecciati con frasche tutto intorno e sopra questi si appoggiava la pelliccia di terra coperta di embrici per renderla impermeabile”.

Vicino alle capanne coniche si formavano le carbonaie, anch'esse a forma di cono. La costruzione della carbonaia richiedeva fino a 4 giorni di lavoro, la cottura durava un paio di settimane e doveva essere sorvegliata di continuo. La carbonaia si costruiva accumulando la legna tagliata a misura, fino a costruire una forma conica allargata, con un camino al centro. Il cumulo di legna si copriva con foglie e terra, in modo da evitare il diretto contatto del legno con l’aria; infatti il segreto dell’operazione stava nella combustione lenta e imperfetta in un’atmosfera povera di ossigeno.

Dopo un altro giorno passato a spegnere e disfare la carbonaia, si poteva cominciare ad insaccare il carbone per il trasporto. Poi si spostavano da un'altra parte.

I bambini, invece, andavano a scuola. A Casaglia Pie D'Alpe, negli anni trenta,  la scuola“era un baraccone di legno portato su dalla miniera di lignite”. Infatti, c'erano dei giacimenti di lignite, un carbone fossile di limitato pregio utilizzato per la produzione di energia elettrica, sia a Barberino che a Scarperia e Borgo San Lorenzo. I bambini arrivavano alla scuola da tutte le parti, anche dal di là dell'Appennino. Attraversavano i boschi lungo le mulattiere e gli stretti sentieri sconnessi dove “non passavano altro che muli o bovini”. Da Pecora Vecchia a Casaglia ci si metteva un'ora a piedi passando per i crinali di sotto o di sopra a Rifiletti, vicino a Montepiano. “Arrivavano conciati...cose disastrose quando c'era la neve, tutti bagnati quando pioveva. Ma venivano tutti i giorni, tranne il giovedì, libero a quell'epoca , e la domenica. Solo se c'era la tormenta non venivano”. I più piccoli venivano accompagnati dai fratelli più grandi o, a volte, dal babbo. Poter studiare significava fare un'ora a piedi all'andata e una al ritorno sotto l'acqua e le neve, i piedi fissi nel fango, con solo un po' di latte o polenta dolce, “polenta di castagne dura, freddata e poi tagliata col filo di ferro”,  in pancia per arrivare a scuola, dove stavano “seduti in una baracca fredda tutto il giorno a 700 metri di altezza”, ma lo facevano.

“Oggi si dice: i miei figli non devono patire quello che ho patito io. Ma dando l'abbondanza, hanno dato e tolto” dice sereno.

La vita scorreva lenta, sempre uguale. Le donne cucinavano, rammendavano, ma andavano anche nel bosco dove preparavano i fastelli di legna per il fuoco. Erano i tempi quando la gente “andava a fare la spesa con il libretto e poi pagava a rate...”. In casa poi “ tutte le donne facevano la treccia”. Intrecciavano fili d'erba preparati per fare cappelli di paglia e per rivestire i fiaschi”. Ma intorno al fuoco con un lume a petrolio, prima che ci fosse il carburo, anche i bambini intrecciavano “una paglia speciale, o saggina,  e anche giunchi, che lasciavano prima seccare, e poi bagnavano per farli diventare elastici e rivestire le sedie”.

Fino alla terza elementare il signor Sergio è andato a scuola a Casaglia, ma poi quando la famiglia si è trasferita a Bilancino, proseguì gli studi dalle suore a Cafaggiolo, a soli 1300 metri da casa.

Stavano anche il pomeriggio e ogni giorno a pranzo mangiavano “un piatto di riso stracotto”, dice e poi ride: “D'estate, in tutti i pozzi lungo la Sieve, si faceva il bagno. Usavamo quelle mutandine speciali che non si sciupano”.

Immagino qualche materiale speciale intrecciata dalle mamme, o qualche flanella resistente e così gli chiedo di quale mutandine parli.

Mi guarda divertito e risponde “Le mutandine che ci ha fatto il padreterno!”

I ragazzi il fiume lo vivevano, era amico di giochi. Pescavano con le mani nude tra i sassi: “Davamo delle martellate ai sassi, il pesce rimaneva stordito e lo prendevamo con le mani! Una volta scoprimmo dei pescatori di frodo, quelli seri! Usavano un batterello, un cerchio di rete, per prendere le anguille. Quando lo scoprimmo, ci si alzava presto e si andavano a prendere le anguille prima che arrivassero loro! Scoperto il fatto, però, dovemmo cessare”.

E poi, c'era lo studio, che il signor Sergio con la sua determinazione, la passione e l'aiuto dei suoi cari, ha portato avanti. Sì, perché anche a quei tempi, anche con le difficoltà che gli anni prima e dopo la guerra portarono con sé, chi lo voleva veramente riusciva a studiare. E il signor Sergio fu uno di questi: finì la quinta nella piccola scuoletta di Cafaggiolo a carico, come pure tutti gli altri alunni, del Marchese Gerini e del Principe Borghese. Cinque di ginnasio in seminario, tre di liceo sia in seminario che da privatista, e poi l'università, a Bologna prima e dopo la guerra, alla quale prese parte e dalla quale tornò segnato, ma non sconfitto.

Milioni di soldati italiani, come il signor Sergio, furono chiamati alle armi per servire la patria, ma l'8 settembre 1943, firmato l'armistizio, furono abbandonati a sé stessi, ovunque si trovassero.

Da quel momento l'iniziativa militare fu lasciata pienamente ai tedeschi, che fecero pagare le conseguenze agli alleati  da cui si sentirono “traditi”. In poche ore, l’esercito tedesco si impadronì dell’Italia a nord di Salerno e le Forze Armate italiane si dissolsero. L’annuncio dell’armistizio fu scambiato per l’inizio della pace e di un rientro a casa, ma l’esercito tedesco si impadronì di tonnellate di armi e viveri, catturò circa 600.000 soldati italiani, e li inviò poi nei campi di concentramento in Germania.

“Quando ci fu l'armistizio - ricorda Sergio - eravamo in Francia. Non ci restò che tornare a casa. A piedi. Se non era il freddo delle Alpi a ucciderci erano i Tedeschi. Eravamo 1500. Una volta ci radunarono tutti insieme e noi non si capiva cosa volessero da noi. Ebbi la fortuna di vedere con la coda dell'occhio un movimento di un fucile e mi buttai a terra. Gli altri non fecero in tempo. Cadevano morti da tutte le parti, uno anche sopra di me”.

Tornato nel suo Mugello dopo giorni e giorni di cammino non aveva più la pelle sui piedi. A Borgo chiese un passaggio a chi conosceva, ma erano tempi brutti, pericolosi. C'erano le camionette dei tedeschi per le strade. Dovette fare gli ultimi chilometri lungo la Sieve per raggiungere Bilancino e la sua famiglia in ginocchio. “Dovetti stare a letto un bel po' per rimettermi”.

Ma questo non lo fermò dal laurearsi in veterinaria. “All'università si pagava solo l'iscrizione allora. Per il resto si faceva economia e mi aiutarono i miei, come poterono. Mio fratello soprattutto che, persa una gamba sotto una mietitrebbiatrice da piccolo, andava a Borgo in bicicletta tutti i giorni a lavorare. A Bologna ci andavo con qualche mezzo di fortuna, qualche camion, il corriere, mezzi occasionali e, quando non trovavo nessuno, in bicicletta. All'inizio davo qualcosa per la stanza in casa dei due anziani che mi avevano accolto, ma poi ci abitavo in cambio di un aiuto in casa: portavo la legna da Bilancino, la preparavo. Quando finalmente mi laureai era pomeriggio e io avevo voglia solo di tornare a casa, dai miei. Viaggiai tutta la notte e quando arrivai dormivano. Bussai alla porta e mi aprì mio fratello. Entrato in casa mi raccontò di una grande festa per un ragazzo di Barberino, figlio di gente che stava bene, che si era laureato. Mi guardò e disse, ma tu, quando ti laurei? Tirai fuori da sotto la giacca la mia laurea. Fu un momento bellissimo. Allora bisogna svegliare tutti e fare festa, disse!”

E nella vita avventurosa del signor Sergio inizia un altro capitolo, quello di veterinario. “I dottori, i veterinari, si spostavano. Eravamo sempre in movimento, sempre in attesa di una chiamata. Avevamo tutti qualcuno in casa per ricevere i pazienti quando non c'eravamo, e riferirci  di cosa avevano bisogno. La popolazione, la maggioranza, era dislocata in montagna, in case isolate. C'era un'ostetrica, bravissima, per le chiamate scomode la dovevano portare sul carro dei buoi”.

Da libero professionista si occupava di tutto il territorio da Sant'Agata fino a Panna: Montecarelli, Santa Lucia, Galliano, Scarperia. Poi più tardi fu assunto a Firenzuola. All'inizio faceva le visite a piedi o in bicicletta poi in moto, poi la Topolino, come chiamavano la Cinquecento. Un'avventura dopo un'altra.

“Una volta - racconta - avevo una visita verso Scarperia, ma la strada era franata e dovetti scendere lungo il fosso e risalire di là. Al ritorno, nel buio, sento un lamento. Era il dottore. Anche lui era stato a fare una visita ed era scivolato lungo il dirupo. Lo trovai aggrappato a un'acacia. Non so quanto tempo era stato lì”.

Ma non fu l'unica volta che incontrò un altro medico a giro per le campagne mugellane: tornando da una visita su in alto sopra Vaglia, a Scarabone, trovò un dottore lungo la strada, seduto su un muretto. Gli chiese cosa facesse lì. Questi gli spiegò che doveva andare anche lui lassù a Scarabone a fare una visita e che si stava riposando un attimo prima di affrontare la salita. Dopo un po' di insistenza da parte di Sergio, riuscì a farlo montare sulla macchina e lo porto lui fin lassù”.

E' un immagine che mi piace questa dei medici itineranti che vanno da un paziente all'altro a piedi o con altri mezzi di fortuna. E, come mi spiega Sergio, non senza aneddoti coloriti.

“Una volta finii fuori strada con la Topolino, per colpa della neve, e mi dovettero tirare fuori con i bovi; un'altra volta tornando notte tempo da Piancaldoli giunto in località Sasso di San Zanobi mentre c'era una tormenta di neve, una folata di vento mi rigirò la macchina coprendola tutta di neve. Aspettai in macchina, intrappolato, finché un'altra folata non la ripulì poco dopo e potetti riprendere la strada!”

Poi c'era la volta che tornando da Bruscoli di notte con la nebbia fittissima giunse in un luogo che non conosceva. Proseguì il cammino cercando la località di Casetta, ma non trovò neanche questa. Quando vide delle luci e scese per vedere dov'era si accorse di essere a Pietramala: aveva sorpassato la destinazione di cinque chilometri e dovette tornare indietro!

Ma il lavoro l'ha fatto sempre con entusiasmo e si ricorda la felicità di un contadino al quale aveva salvato la bestia e che gli disse con tanta convinzione: “Lei dottore, è un fenometro!”

 

 

 

 

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