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Il Mugello sui 'pedali'. Storia di una 'normale' vita avventurosa...

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Nuova puntata di 'C'era una volta in Mugello'. La storia di Silvano e della sua vita 'normale' ma allo stesso tempo 'avventurosa':

"Non s'aveva una lira in tasca, ma c'era la fraternità, la tranquillità...Siamo andati avanti, troppo avanti"

Esordisce così il signor Silvano quando gli chiedo del passato, degli anni '30 e '40, prima e dopo la seconda guerra.

Le ho sentite già queste parole. Mi sono state ripetute tante volte da persone diverse e con vite differenti. Le difficoltà economiche erano enormi e diffuse, ma ogni individuo porta con sè un ricordo particolare, doloroso, ma insieme dolce, di quello che significava essere piccoli quando il cibo scarseggiava e i pidocchi no.

La vita del signor Silvano, per esempio, aveva un ritmo particolare, cadenzato dalle lunghe pedalate in bicicletta, le sue, certo, ma anche quelle delle persone a lui care. E averla, una bicicletta, era una fortuna, "perché c'era chi aveva solo le scarpe" dice.

Nato nel 1926 in via della Fortezza 1, a San Piero, è cresciuto con sette fratelli, 5 maschi e 3 femmine. Silvano ricorda un paese vivo, movimentato, diverso da oggi. Arrivando da Firenze la provinciale era costeggiata da campi ma pochissime case. Tagliaferro, Campomigliaio, Case Nuove Taiuti, Novoli, La Luna, il Toro del Solli, dove i bambini giocavano nella cascata, fino al vecchio  paese che cominciava nei dintorni alla Pieve. C'erano tante botteghe, come quella della signora Beppa che aveva le mentine, e due mulini, uno a cilindri. E c'erano il dottor Facibeni, e  il signor Dallai, il biciclettaio, che gli avrebbero, ognuno a modo suo, segnato la vita.

Il babbo lavorava "da buio a buio" dice, la strada illuminata solo dal lume a carburo della sua bicicletta. Attraversava la valle della Sieve tutti i giorni per raggiungere il Fornacione a Borgo, prima, e su per il Miglio diretto alla Montecatini a Firenze, poi, pedalando per mantenere, come meglio poteva, la sua famiglia.

I maschi andavano a scuola e dopo al fiume "a battere i sassi". Li trasportavano nel 'corbello' e poi, dentro il paglierino che gli aveva fatto la mamma, battevano i sassi finché non erano piccoli abbastanza per essere usati per fare le strade. "Ci davano 2 lire a metro cubo..." dice soddisfatto.

Immagino le  montagne di sassi e non oso chiedere cosa si poteva comprare con due lire e quanto ci si metteva a finire di battere un metro cubo di sassi con piccole mani che a malapena sapevano impugnare una penna.

"Poi, delle volte, andavamo ad aiutare nei campi. Raccoglievamo le spighe in cambio di un po' di riso con papero o di cotto di fagioli. Eravamo sempre in movimento, sempre a cercare di racimolare qualcosa. Come con la signora Renata, Granchio la chiamavamo. Arrivava con una cesta pieno di dolci e faceva il gelato, in piazza. Con le stanghe di ghiaccio, una grossa vasca, e mentre lei ci versava dentro il latte, le uova e gli altri ingredienti, noi si girava la manovella. Chi l'aiutava poteva avere un po' di gelato: c'era una coda lunga di bambini...".  

Ma l'inverno era difficile per Silvano. A novembre cominciava a tossire e così via fino a febbraio, broncopolmonite dopo broncopolmonite. La prima elementare l'ha dovuta ripetere tre volte. Non poteva uscire di casa per andare a scuola e la polverina che gli dava il dottore non aiutava, così il Facibene fece in modo di mandarlo in colonia. Per tre estati dovette lasciare la famiglia: due anni a Calambrone e un anno a Cervia. Il babbo lo montava sulla canna della bicicletta e via verso Firenze e la stazione dove l'aspettava un insegnante. Passava un mese al mare in colonia da solo, lui che era abituato a stare sempre con i fratelli; tornava guarito ma triste e pieno di pidocchi.

"Non ci facevano vedere la famiglia" dice scuotendo la testa pensieroso, "nessuno. Forse perché avevano paura che poi si volesse tornare a casa con loro...Non lo so. Erano severi. Si doveva fare tutto quello che dicevano. Io non potevo fare il bagno in mare. Dovevo stare seduto al sole e basta. Nel centro del campo ricordo una grossa buca, così, a cielo aperto, dove buttavano l'immondizia!"

La bruciavano poi, chiedo?

"Ma che ne so..." scuote la testa schifato, ma poi si illumina, "Un anno venne il mi babbo a trovarmi, in bicicletta, fino a Calambrone. L'ho visto dalla rete..."

Dopo la quinta, aveva circa 12 anni, il babbo gli chiese di portare a fare accomodare la bici perché la ruota 'fregava'. Dovette tornare più di una volta perché il biciclettaio era sempre occupato.

"Quando finalmente si decise di aggiustarla, prese una chiave, strinse il bullone e basta. 'Mezza lira', disse. Mi rimase impressa... Quando, più tardi, mi chiese di aiutarlo in officina perché il figlio era andato a fare il militare, dissi subito di sì".

Così Silvano imparò a fare il biciclettaio pure lui, poi, col tempo, a sistemare i motorini, poi le macchine.

Ma come ha fatto a imparare?  Chiedo...

Batte la tempia con l'indice: "S'imparava guardando, copiando, e anche inventando. Non ci fermava niente; come quando scendevo velocissimo dalla Fortezza con il mio Torpedo con il freno a pedali, senza paura. Si accomodavano i copertoni, poi, quando erano pieni di toppe, si giravano...Durante la guerra non si trovavano i ricambi e così si facevano le camere d'aria con i teli, tagliando e cucendo, e si barattava tutto: fagioli per un copertone...così. Il lavoro era uno svago. Non c'era un orario".

Poi nella sua vita arrivò anche la passione per la musica. Gli accordi glieli insegnava il 'Giudino', e Silvano suonava la chitarra. Lui, Beppe, Supplizio ("noi si chiamava Sacrificio"), il Vignini, suonavano insieme. Le prove le facevano a Borgo in un locale vicino a dove oggi si trova la misericordia. Inutile chiedere come ci arrivava: in bicicletta.

Con la chitarra in una borsa? Chiedo.

"Ehi, che borsa, con la cinghia, a tracolla...Ma quando si suonava al Giotto di Bivigliano, ci portavano in macchina!"

Meno male, penso, che ogni tanto i pedali si riposavano.

 

 

 

 

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