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I bambini nel Mugello degli anni '30. Un racconto....

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I bambini nel Mugello degli anni '30. Un racconto.... I bambini nel Mugello degli anni '30. Un racconto....
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Dalla nostra nuova collaboratrice, Matilde Colarossi, riceviamo questo bel racconto sulla vita del Mugello negli anni passati. Un mondo che non ci è poi così lontano; ma che ormai vive solo nei ricordi delle persone più anziane. E il lavoro di Matilde ' proprio questo, parlare con loro (come ha fatto qui con la signora Rita di Vaglia, per far rivere il nostro passato. Buona lettura

UNA VOLTA IN MUGELLO…

La signora Rita guarda i bambini che aspettano il pulmino che li porta a nuoto il sabato mattina e si rattrista un po'. Forse, dice, eravamo più fortunati noi, ottanta anni fa, quando essere bambini, voleva dire lavorare ma anche giocare, e tanto.

E così mi racconta cosa significava essere bambini negli anni trenta e quaranta. Mentre parla, io guardo verso Pinati e Nocenti e Trogoli, e i boschi sopra Vaglia e mi sembra di sentire le voci mentre chiamano cantando "Che tu fai? Io son qui..." o quando, riuscendo a riunirsi insieme, con le bestie che pascolavano tutt'intorno, intrecciavano le mani in una quadriglia intonando "Bella, bella la lungatella...".

I boschi del Mugello sono pieni di quei canti, canti delle mamme, delle nonne, delle vecchie zie e di tutti quei bambini che oggi forse, come la signora Rita, guardano i nostri figli indaffarati, pieni d’impegni, e pensano, forse eravamo più fortunati noi.

Quando nei piccoli paesi del Mugello le uniche figure che potevano permettersi un cavallo o una macchina, erano il maestro, il fattore, il dottore, il maresciallo e il prete, i figli dei contadini, dei mezzadri, i figli della campagna, avevano una vita movimentata e importante, importante per le famiglie, perché anche se le scarpe le mettevano solo per andare a scuola la mattina e alla messa la domenica, con gli zoccoli ai piedi si muovevano nelle campagne svelti, già grandi, felici di essere utili.

Prendevano parte alla vita del podere, alla vita di famiglia, questi piccoli adulti-bambini che, però, sapevano giocare, inventare storie, intonare canti e vivere una vita che i soldi non potrebbero comprare, mai, né oggi né allora.

Il racconto della signora Rita comincia quando c'era in Mugello un comune che si chiamava Vaglia del Mugello, quando la Sita si chiamava Corriera e le strade del Mugello si percorrevano a piedi, quando eleganti signore venivano in treno da Firenze per affidare i loro bambini alle balie perché provvedessero all'allattamento, quando il babbo andava a Firenze a piedi per vedere il volo della Colombina e lo scoppio del Brindellone alla vigilia di Pasqua perché così avrebbe saputo se il successivo raccolto nei campi avrebbe dato buoni frutti, e quando la vita era più semplice, seppure più dura, per un bambino.

Da ottobre a maggio, la mattina presto, la signora Rita, come pure tutti gli altri bambini, scendeva dalla campagna per studiare nella scuola in piazza Corsini dove l'aspettava la maestra Giuseppina. Arrivava con un solo libro, un quaderno a righe, uno a quadretti e un pennino, ma andava via con tante nozioni, tante parole nuove da riscrivere e studiare, tante storie e poesie da imparare a memoria. Ma la vita dei bambini di campagna non si svolgeva solo lì, dietro quei banchi, dove era vietato agitarsi o parlare se non interrogati, ma nella campagna tutto intorno a casa loro. Fermi, immobili ai loro banchi, le piccole gambe avrebbero voluto dondolarsi sotto le sedie per marcare i minuti di attesa che li separavano dalle 12:30, dal momento in cui potevano tornare a casa dalla mamma, il babbo e le sorelle, che a dieci anni la scuola l'avevano già finita.

Sì, perché negli anni trenta le piccole contadine studiavano fino alla terza elementare, che spesso ci mettevano quattro anni per finire perché l'esame della terza elementare era a giugno, ma a maggio dovevano lasciare la scuola per andare a badare alle bestie nei campi. Dunque ripetevano l'anno. I maschi, invece, studiavano fino alla quinta, perché a quei tempi, ma anche per molti anni dopo, dicevano che era inutile educare le donne, che dovevano solo servire gli uomini.

Al suono della campanella, in fila indiana, prime e seconde insieme nell'aula del primo piano, uscivano dal portone e correvano verso casa e verso quell'altro mondo, quello libero dalle costrizioni, le regole e gli sguardi a volte beffardi dei compagni più ricchi dove il tempo, come pure i mesi e le stagioni, era scandito da lavori ben precisi.

I bambini si toglievano gli stivaletti e si mettevano gli zoccoli di cuoio con la suola di legno fatti dal babbo e dopo pranzo via con il panierino fatto a mano prima a cercare le ghiande per i maiali a ottobre, e poi a raccogliere la legna per la casa nei poderi. Tutto il tempo cantando, in compagnia, nell'aria fresca che cominciava a bruciare le guance e le gambe dentro le calze di lana sotto le vesti corte.

Ogni mese aveva il suo lavoro, i suoi tempi, il suo clima.

Arrivava la vendemmia e il profumo di mosto e le vespe mezze addormentate, ma specialmente il babbo che dava a ogni bimbo il suo coltellino e il suo panierino e poi lo issava sulle forti spalle per sistemarlo sul ramo del pioppo dal quale poteva cogliere in piena libertà i grappoli dalla vigna alta, altissima, irraggiungibile. Le scale a pioli, d'altronde, erano poche e servivano ai grandi.

Le foglie cambiavano, il tempo si raffrescava e arrivava il mese della raccolta delle olive.

Qui la signora Rita prende fiato e io, invece, imparo una parola nuova: 'bugnolo'.

Il bugnolo l'ho visto molte volte sulle bancarelle delle fiere, di solito pieno di fiori, come una specie di vaso pensile in vimini, ma non solo non sapevo che si chiamasse così, ma non l'ho mai associato a un bambino o a un adulto, e se non era per il racconto della signora Rita, non avrei mai potuto immaginare uno scricciolo su un alto ramo di una pianta d'ulivo con quel cestino fatto su misura appeso al collo mentre le piccole mani brucano le olive. Come non avrei mai capito con quale entusiasmo si potesse seguire il babbo per il podere cercando di imparare tutto, perché significava diventare grande, significava una carezza sulla testa e un complimento tanto agognato.

Il racconto si allunga ed è pieno di memorie accompagnate da sorrisi compiaciuti di chi era e di chi è diventata.

Le stagioni nel suo racconto si rincorrono, si animano. Dopo la semina del grano c'è il grande cappone a Natale e il panforte, regalo della Signora di Firenze, madre del suo fratello di latte; c’è la messa di mezzanotte sotto la neve e il carbone vero, non di zucchero, della befana.

L’inverno finisce e arriva la primavera e la signora Rita ha una piccola zappina fatta apposta per lei; copre i semi che il babbo sparge a mano dopo aver arato. C'è di nuovo la legna da raccogliere e il tabacco da seminare a giugno. Ci sono i tanti sassi da togliere, quasi come se nascessero dal terreno, e ancora la semina...

Ascolto e capisco come tutto era più reale, più naturale una volta. E, nonostante la fatica, il mondo misterioso che circondava quei bambini - le poche notizie si sentivano solo attraverso le cuffie della radio a galena che si teneva nascosta dai Fascisti prima e dai Tedeschi poi - era più bello. Erano bambini con molti punti fermi: la famiglia, la terra, le stagioni. Erano bambini liberi, liberi di correre e ballare e cantare e creare storie dentro le capanne ritagliate dal poggio nel bosco dove di notte si nascondevano le guardie in cerca di bracconieri.

Grazie alla signora Rita io vedo il bosco intorno a Vaglia con altri occhi e mi sembra di sentire le loro risa mentre giocano a tre bombe, mentre cantano, mentre ballano la quadriglia. Mi sembra di sentire intonare "Bella, bella la lungatella..."

Matilde Colarossi

 

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