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Giornalismo che cambia. Ecco la ricetta del presidente nazionale dell'Ordine dei Giornalisti

Un'intervista di Nicola Novelli per Espansione.

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Carlo Bartoli, Presidente Nazionale dell'Odg Carlo Bartoli, Presidente Nazionale dell'Odg © Espansione
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E' con piacere che pubblico volentieri l'intervista che il collega e amico Nicola Novelli direttore di Nove da Firenze ha fatto per il magazine Espansione al Presidente Nazionale dell'ordine dei giornalisti Carlo Bartoli.
Una bella intervista dove si riflette su una categoria alle prese con la crisi dell'editoria e le trasformazioni portate dal digitale. Un momento di riflessione non solo per la nostra professione ma per tutto il sistema informazione italiano e la democrazia reale.
Nadia Fondelli


Carlo Bartoli è dal dicembre 2021 il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, il soggetto collettivo che rappresenta una categoria professionale composta da circa 100.000 iscritti.
Fiorentino, classe 1955, ha lavorato nelle redazioni di Paese Sera, La Nazione, Il Mondo. Ha concluso la propria carriera professionale come vice-caporedattore del Tirreno. Per anni ha tenuto un corso di comunicazione giornalistica all’Università di Pisa. E’ molto impegnato sui temi della deontologia professionale e dell’etica dell’informazione. Espansione lo ha incontrato per immaginare con lui il futuro della professione giornalistica.

Le vecchie industrie dei media attraversano enormi sconvolgimenti. E’ ancora possibile immaginare qualche tipo di loro riconfigurazione, oppure possiamo darle per spacciate?
Penso che, come per tutte le grandi innovazioni, anche nel comparto dei media si stia procedendo per affiancamento e non per sostituzione.
La rivoluzione digitale sta condizionando tutti i processi fondamentali delle società avanzate, media compresi. Tuttavia, pur se ridimensionati, non credo che sparirà la tv generalista, né tantomeno il quotidiano cartaceo, così come non sono spariti i libri o i cinema come invece qualcuno prevedeva qualche anno fa.
Ovviamente è interesse (e condizione essenziale) delle “vecchie industrie editoriali” seguire i processi di innovazione tecnologiche senza i quali si rischia davvero la scomparsa. Oggi sono davvero poche le aziende dei media che, in un modo o nell’altro, non fanno i conti con la dimensione digitale.
Il punto vero, però, è farlo bene e tenere alta la qualità dell’informazione giornalistica.

La diffusione globale delle piattaforme, come Facebook, Instagram, YouTube, sino a TikTok, sta modificando i modelli della produzione culturale. Il web si sta piegando ai profitti di pochi e perde sempre più il suo originario potere democratizzante. Come si fa a garantire dignità creativa ai giornalisti che operano nell’ambiente digitale?
Ormai sembra del tutto sparito quello spirito di libertà condito di un pizzico di romantica anarchia che si respirava a nei primi anni dell’avvento di internet.
Le grandi piattaforme si muovono con algoritmi il cui obiettivo è trarre profitto dalla mole di dati e informazioni, sia sugli utenti che sulla tipologia di traffico. Algoritmi che si alimentano di reazioni emotive, di bolle in cui rinchiudere gli utenti inseguendo gli istinti tendenzialmente più estremi, perché sono quelli che generano maggiore traffico, che vuol dire maggiori profilazioni, maggiori guadagni.
Il giornalista deve avere la capacità di distinguersi anche sul web in base alla qualità del suo prodotto che deve richiamarsi sempre ad un’etica della professione e ai principi deontologici che, nei loro fondamentali, sono più che validi anche nell’era del web.
C’è poi un problema di mercato del lavoro che è sempre più frammentato, proprio nel digitale. Da tempo chiediamo che i sostegni all’editoria siano orientati al sostegno della qualità dell’informazione e non alla mera quantità, che significa sostenere anche il riconoscimento contrattuale del lavoro nell’editoria digitale.

Da tempo viene chiesto al giornalista di reinventarsi come social media manager. E’ un percorso nel quale si può rimanere coerenti alle norme deontologiche che regolano la professione classica?
Quella di social media è una funzione alla pari di tante altre che il giornalismo ha incontrato nella sua storia secolare da quando, con Gutenberg, è stata inventata la stampa. Il problema sono le modalità di gestione delle piattaforme. Pertanto, il giornalista “deve” saper operare sui social media lavorando come giornalista e non facendosi pilotare dall’algoritmo. Aggiungo che il giornalista è deontologicamente vincolato anche quando opera con i canali social personali.
Essendo una figura professionale “che fa opinione”, il giornalista deve rispettare i canoni della professione anche nella sfera personale dei suoi profili social. Si è sempre giornalisti, anche al di fuori dell’orario di lavoro.

Assistiamo già all’applicazione di intelligenza artificiale (o per meglio dire di machine learning evoluto) nell’informazione. È l’avvento di un nuovo giornalismo realizzato senza giornalisti?
Anche qui nessuna demonizzazione dell’innovazione digitale, però vi sono paletti precisi che vanno posti, come ha già iniziato a fare l’Autorità Garante per la Privacy.
nnanzitutto c’è la necessità di imporre una piena trasparenza. Devo sapere se il testo l’audio o il video che fruisco sono realizzati o meno in esclusiva da Intelligenza artificiale: questa è la premessa per un approccio consapevole all’informazione.
Poi vi sono questioni legate alle fonti di cui si “nutre” l’AI e alla sua programmazione. Ritengo che, come tutti gli strumenti, l’AI possa essere utile per elaborare prodotti di routine, certamente per articoli di analisi e approfondimenti (testi, audio o video) non possono essere lasciati al solo software.
Un conto è, ad esempio, una ricerca di fonti e materiali, altro è la loro elaborazione. L’uomo fa la differenza.
In ogni caso sulla AI occorre approfondire e, soprattutto, interagire con il legislatore e con le autorità di controllo, al fine di garantire i necessari spazi di pluralismo nell’informazione anche con l’utilizzo di questo nuovo strumento

Da quasi un anno e mezzo ha assunto la carica di presidente dell’Ordine dei giornalisti. Quali sono le sfide che ha già affrontato e quali quelle che vorrebbe vincere entro la scadenza del suo mandato?
Vorrei vedere una categoria che guarda al futuro, conservando la memoria e i principi cardine della professione ma con un quadro normativo che consenta di essere al passo dei tempi.
La legge sull’Ordine è ferma al 1963, un’altra era geologica. Oggi con la rivoluzione digitale si sono moltiplicati i modi di fare giornalismo. In attesa di un riscontro dal Parlamento rivendico la scelta di aver aperto – con una recente decisione del Consiglio nazionale approvata dal Ministero vigilante – una modalità aggiuntiva per l’accesso al praticantato il cui scopo è il riconoscimento dei giornalisti di fatto. Un modo per dare un primo segnale di apertura ai nuovi mondi dell’informazione.

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