La Toscana dei giovani © Immagine generata con AI
Nel mare agitato della nuova politica toscana, il presidente Eugenio ex genio Giani, per la composizione della sua squadra di governo, ha dovuto immolarsi da novello martire alle scelte del Nazareno e ha scelto (o gli hanno fatto scegliere) di puntare anche sui giovani. Una mossa paraculista che sulla carta profuma di rinnovamento, futuro e inclusione in un’epoca in cui la politica nausea sempre di più le nuove generazioni.
Ma come spesso accade, al di là delle facciate patinate da rotocalco quando si parla di “scelte coraggiose”, vale la pena grattare la superficie e guardare oltre il filo d’erba per comprendere cosa c’è davvero dietro questa presunta svolta generazionale.
Al centro del dibattito ci sono i due under 30 scelti — o meglio, prescelti: la (falsa) carneade Mandatani in salsa cacciucco, Mia Diop, 23 anni, nominata vicepresidente della Regione, e il volto noto, il delfino del Presidente, Bernard Dika, 27 anni, eletto con una valanga di preferenze personali e nominato sottosegretario regionale: un ruolo che non è mai esistito, cucito per lui come un abito sartoriale.
Due storie, due percorsi completamente diversi, due simboli. Diversissimi.
Eppure, alcuni giorni fa, in un contesto completamente alieno dove sarebbe stato gradito evitare la propaganda politica, qualcuno vicino all’eterno Eugenio ha osato paragonare i due giovani, facendo un danno d’immagine clamoroso sia a Giani sia ai due diretti interessati, che di simile non hanno davvero nulla.
In politica, dicono, tutti partono dalla stessa linea. Non è vero. Qui sembra di essere in un videogioco dove c’è chi sceglie la modalità “campagna completa” e chi comincia direttamente dall’ultimo livello.
Nella Toscana del Giani-bis succede esattamente questo: Bernard Dika ha compiuto tutto il percorso; Mia Diop ha trovato la corsia d’emergenza spalancata.
Bernard Dika vs Mia Diop
Dika ha indossato le scarpe da corsa, ha fatto chilometri nei territori, ha costruito la sua credibilità, ha parlato con elettori veri, quelli che poi nell’urna votano con la matita e non con la tessera.
Ha raccolto oltre 14.000 preferenze autentiche, ha affrontato una campagna elettorale breve ma intensa, ha superato un giudizio vero ed entra in giunta come uno che il posto se lo è guadagnato, non come uno che l’ha trovato.
Diop è l’opposto.
Per lei il percorso è stato più simile al teletrasporto: da attivista con la tessera in tasca, conosciuta in alcuni ambienti ristretti, alla scrivania di vicepresidente senza passare dal via.
Non ha fatto campagna elettorale, non ha chiesto voti, non ha affrontato confronti pubblici. Non perché non volesse, ma perché nessuno gliel’ha chiesto.
La sua carriera politica — che ancora non esiste — nasce già adulta, come certe star del pop che saltano direttamente dai social alle copertine.
Direte: è una scelta legittima. Certo. Ma anche la carbonara con la panna è legittima: resta difficile da digerire.
Il punto non è Mia Diop, né la sua persona né le sue idee.
Il punto è la scorciatoia.
Perché mentre Giani ripete che “il voto è importante ma non tutto”, la sensazione è che il voto valga molto solo quando non intralcia le strategie di chi comanda.
Così la nuova giunta toscana diventa il laboratorio perfetto: un po’ democrazia, un po’ selezione del personale; un po’ elezioni, un po’ casting politico; un po’ meritocrazia, un po’ curriculum depositato a Roma.
Mia Diop: la nomina che divide
Ha 23 anni. Ha profili social perfettamente in linea con la sua età: slogan più grandi di lei, aperitivi, foto sorridenti con amici.
Il profilo, nel complesso, è quello di una studentessa qualunque di Scienze Politiche che, forte della sua amicizia personale con la segretaria di partito armocromista, è riuscita a diventare consigliera comunale a Livorno, dove la sua esperienza si limita a sedici mesi di primi passi istituzionali.
La sua “fortuna” — se così si può chiamare — è quella di avere pelle non proprio diafana e origini africane: la figurina perfetta da sbandierare a sinistra.
Così entra nella storia come la più giovane vicepresidente della Regione Toscana.
Una scelta che Giani ha definito “un investimento sul futuro”, un segnale di apertura verso una Toscana più giovane, più inclusiva, più rappresentativa.
Peccato che questa scelta faccia tremare i polsi a molti, anche nel Pd, che immaginano scenari crepuscolari nella sciagurata ipotesi che all’eterno Eugenio venga solo un raffreddore un po’ forte.
Il suo tallone d’Achille pesa come un macigno: non è passata dalle urne.
Non è stata scelta dagli elettori.
E questo — per un ruolo così alto — pesa eccome.
La carneade è una prescelta, non dagli elettori: dal partito.
E questo pesa politicamente nel rapporto con assessori e consiglieri che invece hanno misurato il proprio peso sul campo, voto dopo voto.
Porta entusiasmo, ma solo il suo.
La freschezza è offuscata dalla raccomandazione e da una scomoda vicenda debitoria del padre verso il Comune di Livorno.
Il suo curriculum, così com’è oggi, non le varrebbe nemmeno un posto da shampista — con tutto il rispetto per le shampiste, che almeno fanno esperienza vera.
Bernard Dika: giovane sì, ma scelto dagli elettori
Diversissima la parabola di Dika.
Anche lui under 30, anche lui simbolo della “nuova Toscana”, anche lui amato dal Nazareno.
Ma a differenza della pulsella labronica, il suo ruolo politico nasce dal consenso popolare.
È stato premiato dalle urne con un numero impressionante di preferenze personali.
Non è stato calato dall’alto: è stato scelto, cercato, riconosciuto dagli elettori.
La sua storia personale è un autentico simbolo d'inclusione: l’arrivo bambino dall’Albania, la trafila burocratica, l’impegno nelle associazioni, il Parlamento degli Studenti, l’onorificenza di Alfiere della Repubblica conferita da Mattarella.
Un curriculum che parla da solo.
Una storia che pesa.
Un consenso che pesa ancora di più.
Il ruolo di sottosegretario alla Presidenza — creato su misura per lui — è un ponte tra giunta e consiglio: un facilitatore politico, un mediatore, non una figurina.
Rappresentanza o rappresentazione?
Il parallelo tra Diop e Dika, come già detto, non esiste.
La domanda vera è un’altra:
la Regione Toscana sta valorizzando i giovani o sta costruendo una narrazione sui giovani sfruttando la loro freschezza?
Dika è giovane ma politicamente maturo. Legittimato.
Diop è giovane, forse troppo, e politicamente acerba. Perfetta per la comunicazione, meno per il governo.
Il rischio del “giovanilismo di facciata”
Quando due ventenni e trentenni vengono catapultati così in alto, la scommessa è doppia: possono cambiare davvero la politica oppure diventare figure decorative utili solo al racconto.
La sensazione — legittima — è che il Giani-bis abbia più bisogno di raccontarsi innovatore che di essere innovatore.
La domanda diventa dunque inevitabile:
stiamo vedendo un reale cambiamento o solo un casting ben riuscito?
La morale finale (amara)
Alla fine la differenza tra Dika e Diop è tutta qui:
uno è il prodotto della volontà popolare, l’altra è il prodotto della volontà del partito.
Uno si deve agli elettori, l’altra a chi l’ha nominata.
Uno risponde al territorio, l’altra alla linea.
La Toscana meritava una giunta nata dalle urne, non dagli equilibri interni.
Una squadra selezionata sul campo, non in un casting.
E un presidente che rivendicasse autonomia, non che la negoziasse.
Il rischio è evidente: questa non è una giunta regionale, ma una succursale del Pd nazionale.
Un governo locale solo di nome, costretto a guardare più a Roma che ai problemi dei cittadini.
Concludendo: il problema non è chi corre più forte, ma chi decide chi parte.
E una democrazia in cui il via lo dà il partito non è più democrazia:
è un esercizio di potere travestito da rinnovamento.
E allora la domanda resta una sola:
se questa è la nuova democrazia del centrosinistra, quanto vale ancora il consenso degli elettori?


