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Dante, l'esilio e il mancato ritorno. Orgoglio o coerenza?

Un nuovo interessante e originale intervento domenicale dello studioso Alfredo Altieri

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Dante Alighieri Dante Alighieri © Waltteri Paulaharju
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Il 25 marzo è stata la giornata dedicata a Dante, il Dantedì, voluta dal ministero della pubblica istruzione. Un evento bello e importante per tutti gli italiani dedicato al Sommo Poeta. Sommo si, diranno in tanti, ma anche molto saccente, orgoglioso, rancoroso e immodesto. Ma sarà stato proprio così?

A distanza di settecento anni, si può pensare che a Dante non fu data una possibilità vera di un suo ritorno in Patria. Anzi, capita spesso di pensare il contrario, ossia: che se davvero avesse voluto... se fosse stato meno puntiglioso, meno superbo, meno sdegnoso, più accomodante avrebbe potuto rientrare cogliendo una delle amnistie che il Comune Fiorentino nel tempo aveva offerto ai fuorusciti. Capita anche di considerare che questa sua continua “lagna” su Firenze e sull'esilio sia esagerata, fastidiosa e ossessiva e che Dante fosse molto presuntuoso e saccente, bravo, bravissimo, ma pure tanto pieno di se.

Ripeto: Ma sarà stato proprio così? All'epoca Dante non era uno stimato poeta e i vari signori non facevano a gara per averlo a casa propria, né gli accademici lo onoravano, né il popolo lo aveva in grande stima, egli era un uomo costretto a mendicare il pane col suo lavoro di mezzo ambasciatore, quasi un “damo” di corte.

Chi ha instillato l'idea che il poeta fosse un animo sdegnoso, altero e compiaciuto di se è il cronista fiorentino Giovanni Villani, che ha lasciato una descrizione di una trentina di righe nella sua “Nuova cronica” e questo suo profilo può aver condizionato i biografi successivi e vale la pena di chiederci se il Villani quando scrisse di Dante fosse in buona fede.

A quasi trentanni dalla morte del poeta, Firenze cominciò a fare i conti con la sua eredità e aveva iniziato a chiedersi che fare con quel cittadino che si era guadagnato fama e onore fuori dalla sua città, dicendo cose anche contro Firenze. Quando Giovanni Villani scrisse la Cronaca la partita tra il poeta e la sua città era ancora aperta, anche se tempo ne era trascorso, ma non così tanto da far cadere il duro contrasto nell'oblio, anche perché la fama di Dante era sempre più in crescita.

Matura in questo contesto la soluzione tentata dal Villani, che potremmo definire uno “storico di partito” e che trovò il modo di salvare capra e cavoli.

Egli afferma che Dante è un grande poeta – non si poteva più negare – però di un carattere particolare: “un filosofo mal grazioso che non bene sapea conversare co' laici”.

Questo si dice di solito contro chi protesta: che ha un cattivo carattere. Un modo per delegittimare quelli che contestano indicandoli come collerici e irascibili. Giovanni Villani lo giustifica del suo essere sopra le righe, scrivendo: “...ma forse il suo esilio gliele fece”. Un vecchio trucco per accusare qualcuno mentre lo si scusa. In pratica, il Villani suggerisce tra le righe, che se Dante fosse stato più ragionevole, alla tragedia della morte in esilio non si sarebbe arrivati.

Dante, nella sua Epistola XII indirizzata a un non ben individuato amico fiorentino, però dice una cosa diversa e cioè: “Non si addice ad un uomo che predica la giustizia pagare col proprio denaro coloro che hanno commesso ingiustizia”. Che tradotto vuol dire che lui non vuol tornare al suono della grancassa, nel tripudio, nel plauso e nell'ammirazione generale, come vorrebbe farci credere il Villani, ma tornare senza tradire la verità.

Accettando l'amnistia del maggio del 1315, Dante avrebbe riconosciuto di aver sbagliato, di aver meritato di andare in esilio, come pure aver subito la requisizione dei beni. Era come chiedere scusa dei processi farsa subiti, delle condanne politiche pilotate, per essere stato cancellato, azzerato e ridotto a mendicare per l'Italia.

Con quell'amnistia Firenze lo perdonava, ma a che prezzo? Il prezzo era quello di interpretare la parte del figliol prodigo, del peccatore pentito, del reo confesso. In questo modo Firenze non azzerava i conti con i fuorusciti, ma li chiudeva a modo suo e a suo favore emanando la sua sentenza definitiva: Egli era colpevole di tutte le colpe a lui addebitate, appropriazione indebita, corruzione, peculato e tradimento.

Non importava essere particolarmente orgogliosi, né ostinati o superbi per ribellarsi a una tale mistificazione e Dante non volle piegarsi a questo ricatto-farsa, che avrebbe significato venir meno alla sua coerenza morale e ci fa chiaramente capire che a lui una vera possibilità di ritorno, non gli fu mai offerta.

Oltre a pagare una multa, trascorrere una notte in carcere che gli avrebbe permesso di rientrare in possesso di parte dei suoi beni, è cosa poco conosciuta la prassi alla quale dovevano sottoporsi i “fuorusciti graziati”, i quali riconoscevano le loro colpe con una pubblica penitenza: A piedi, in processione, l'amnistiato arrivava al Battistero di San Giovanni dove, dopo l'offerta, calzava un cappello particolare: il pileo. Questo cerimoniale di ammissione per gli sbanditi ripeteva uno molto più antico dove, il condottiero vittorioso si faceva precedere dai prigionieri liberati e questi, come segno di affrancamento avevano in capo il “pileum libertatis”.

Nel Basso Medioevo, però, il segno aveva cambiato significato e invece di celebrare “la libertà” aveva acquisito il senso di una sorta di patteggiamento. Al rito di origine romana se ne era aggiunto uno d'impronta religiosa, l'oblazione e la benedizione con l'acqua santa che, insieme al luogo scelto, racchiudeva in se un grande significato simbolico.

Dopo tutto questo la colpa era cancellata.

Il 15 ottobre 1315 fu confermata la terza condanna a morte per Dante e i suoi figli.

La quarta sentenza di condanna è del 6 novembre, con essa Dante e i suoi figli oltre alla condanna alla decapitazione, ne subirono un'altra gravissima quella del “Bando maggiore” dove il condannato non poteva appellarsi a nessuna difesa giuridica, determinando con ciò l'impunità per chi uccidesse l'esiliato, unitamente alla proibizione a tutti i cittadini del Comune di aiutare, rifocillare e dare asilo allo sbandito.

ALFREDO ALTIERI

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