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La Sieve maledetta e benedetta. Storia e storie di un fiume

Dopo gli allagamenti di ieri alcune note storiche a cura di Aldo Giovannini

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Sabato 23 novembre 1928. La piena della Sieve passa sotto le arcate del ponte ottocentesco, costruito nel 1846 dopo la tremenda alluvione del 1844 che fece crollare l’antico ponte mediceo. Sabato 23 novembre 1928. La piena della Sieve passa sotto le arcate del ponte ottocentesco, costruito nel 1846 dopo la tremenda alluvione del 1844 che fece crollare l’antico ponte mediceo. © G. Ungania, G. Tassini, A. Giovannini
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Sul ponte della Sieve, (non il Sieve, suona male!) domenica scorsa 17 novembre 2019, sembrava d’essere in piazza d’armi da quanta gente era andata ad osservare il letto del fiume mugellano (“Arno non cresce se Sieve non mesce”, dice un antico andante), paurosamente ingrossato dalle continue e violente piogge che hanno investito, oltre a tutto il suolo italiano, ovviamente anche il Mugello e la Val di Sieve. Il ponte di Sagginale chiuso al traffico, il campo sportivo sotto mezzo metro d’acqua, chiuso anche il ponte a Ponteavicchio, inondati i campi, le stalle, le coloniche, insomma i danni non sono pochi. Fortunatamente – e qui vogliamo sottolinearlo – il lago di Bilancino che “bilancia” le acque dei tanti torrenti che scendono a valle riesce a contenere le piene del grande fiume e nello stesso momento riempire il grande bacino per una maggiore tranquillità idrica nell’estate.

Dunque la Sieve maledetta, ma nel corso dei secoli (ai nostri giorni è abbandonata completamente), era una fonte di vita, di lavoro, di piccolo guadagno per tante mugellani che riuscivano, grazie alla Sieve, a portare a casa un pezzo di pane sudato e salato. Il mestiere più numeroso era il renaiolo, che vagliava la ghiaia, per poi con la pala gettata e sistemata nei barrocci dei barrocciai che la portavano con i cavalli nei cantieri predisposti. Quindi ecco le donne che andavano a fare il bucato di variegati panni, non solo per la loro famiglia, ma per le famiglie che davano loro questa committenza. Sulla sponda della Sieve si vedevano i massi levigati dallo sbattere dei panni e sul dietro, sopra i macchioni di vegetazione, venivano stesi ad asciugare al sole. Poi i pescatori, anche in questo caso coloro che andavano a pescare per procurare un po di cibo alla famiglia, ma più che altro per andare a rivendere il pescato nella pubblica piazza; ecco nei verdi catini negli angoli del vecchio Borgo, i barbi, i cavedani, le lasche, poi a “grotta” per tirar fuori i ranocchi e le anguille, mentre con la forchetta, venivano infilzati, sotto il sasso, i ghiozzi.

Una volta il “ganga” noto pescatore prese per un ghiozzo il dito di “picchino” altro noto pescatore, che gli indicava dov’era il pesce; sette punti di sutura all’ospedale di Luco. Anticamente i campi venivano inondati per annaffiare le semenze e questo grazie all’intelligenza dell’uomo (“contadino: scarpe grosse, cervello fino”), che scavando piccoli fossetti incanalavano l’acque della Sieve nei loro campi. Ecco brevemente quello che è stata la Sieve “benedetta” e se non si sentono più le stridule voci delle donne che lavavano i panni, i ragazzi a fare il bagno ai massoni, le parolacce dei renaioli e dei barrocciai, le litigate fra i pescatori (la concorrenza era tanta!), nell’armonia paesaggistica mugellana, la Sieve al centro della valle per andare a sposare l’Arno a Pontassieve, è l’asse portante di un plurisecolare affresco naturale.


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