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Dopo i recenti decessi avvenuti a Olbia e Genova in seguito all’utilizzo del Taser da parte delle forze dell’ordine, si è riacceso il dibattito nazionale sull’effettiva sicurezza di quest’arma definita “non letale”. Il sindacato MOSAC (Movimento Sindacale Autonomo Carabinieri) ha sollevato interrogativi sulla catena di responsabilità che ha portato alla sua adozione in Italia nel 2022, evidenziando come le conseguenze ricadano principalmente su chi opera in strada, mentre restano in ombra le decisioni politiche e istituzionali.
L’adozione del Taser è stata il risultato di un lungo iter che ha coinvolto tavoli tecnici interforze, il Ministero della Salute e commissioni parlamentari, culminato nell’approvazione di linee guida operative e nella formazione del personale. La giurisprudenza lo colloca tra le “armi comuni da sparo”, consentendone l’uso esclusivamente alle forze dell’ordine. Nonostante tali presupposti, i due recenti casi hanno sollevato dubbi sulla reale natura dello strumento e sul livello di consapevolezza trasmesso agli operatori circa i suoi potenziali rischi.
Secondo il MOSAC, il problema risiede nel fatto che, in presenza di episodi tragici, l’attenzione giudiziaria si concentra sugli agenti coinvolti, senza chiamare in causa chi ha autorizzato, regolamentato e acquistato l’arma. Il sindacato chiede pertanto che le indagini si estendano anche ai livelli decisionali, invocando una maggiore assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni.
Nel frattempo, mentre la politica si divide tra chi difende l’efficacia del Taser e chi lo definisce uno strumento di tortura, rimane aperta la questione della tutela degli operatori della sicurezza, chiamati a utilizzare un dispositivo il cui carattere “non letale” appare sempre più discusso.


